Lo scorso 29 dicembre il Corriere della Sera, con grande enfasi, riportava il contenuto della prima pagina del quotidiano americano York Post, tabloid di proprietà della famiglia Murdoch. Sul quotidiano italiano era riprodotta la copertina del periodico Usa, con il volto di Donald Trump in primo piano e il titolo “Stop the insanity”. Nell’articolo del Corriere la “notizia” era rappresentata dall’ennesima dimostrazione del raffreddamento dei rapporti tra il magnate australiano (editore anche di Fox news) – un tempo sostenitore del capo della Casa Bianca e adesso, dopo il voto del 3 novembre, critico per l’atteggiamento assunto da Trump – e lo stesso presidente degli Stati Uniti. Unico l’obiettivo: mostrare che perfino l’amico di un tempo Rupert Murdoch stava facendo pressioni su Trump affinché il presidente riconoscesse il risultato elettorale di novembre e spianasse, così, la strada all’insediamento di Joe Biden alla presidenza.
L’articolo del Corriere, tuttavia, rivelava solo un “fronte” del dibattito: quello delle pressioni su Trump affinché accetti i numeri della sfida per la Casa Bianca. Nulla era spiegato, nella corrispondenza italiana, della battaglia legale che ancora adesso vede impegnato il “team Trump”.
Il 6 gennaio è in programma la seduta del Congresso nella quale il vicepresidente, Mike Pence, sarà chiamato ad “ufficializzare” il risultato del Collegio dei grandi elettori, con i delegati dei singoli Stati che devono formalmente designare il presidente degli Stati Uniti. Negli anni scorsi si trattava di una cerimonia formale, visto il “riconoscimento” del risultato elettorale da parte dello sconfitto. Quest’anno Trump non ha ancora riconosciuto l’esito elettorale, anzi lo ha contestato, circostanza che rende tutt’altro che pleonastico l’appuntamento nel giorno dell’Epifania. Non solo: alcuni parlamentari hanno già annunciato la loro opposizione all’eventuale riconoscimento della vittoria di Biden, fatto di cui il Corriere ha dato conto solo nell’edizione del 2 gennaio, con un articolo a piede di pagina dal titolo eloquente: “L’ultimo affondo di Trump per negare il voto“.
I due articoli hanno un elemento in comune: il silenzio sulla sfida elettorale del 5 gennaio, quando in Georgia si terrà il ballottaggio per due seggi del Senato. Seggi decisivi per l’attribuzione della maggioranza nella “Camera alta” del Congresso. Se i candidati repubblicani vincessero pure uno solo dei due runoffs, l’eventuale presidenza Biden avrebbe il controllo – e neanche schiacciante – della sola Camera dei Rappresentanti, lasciando il Senato, dove “passano” le nomine di tutti i segretari della futura amministrazione, nelle mani dell’opposizione. Ma di questo sul Corriere non c’è mai stata traccia.
I media italiani, non solo il quotidiano di via Solferino, fin dai primi giorni successivi all’elezione hanno avvalorato la tesi secondo la quale la corsa alla Casa Bianca fosse conclusa ancora prima di attendere il voto del collegio dei “grandi elettori”, avvenuto a metà dicembre. Lo spazio riservato alla competizione è stato esclusivamente occupato dalle notizie sulle composizione della squadra di governo da parte di Biden, non mettendo mai il lettore al corrente delle iniziative giudiziarie del presidente Trump, tutt’al più bollate come grottesche (basti ricordare l’ironia sulla tintura per capelli che colava sulla fronte di Rudy Giuliani, responsabile della squadra legale di Trump) e al limite del “colpo di Stato”. Questo nella migliore delle ipotesi: nella peggiore, le battaglie legali del presidente uscente (non nuove nella politica americana) sono state “silenziate”, come se non fossero in atto.
Le corrispondenze dagli Stati Uniti hanno offerto – salvo rarissime eccezioni – unicamente il punto di vista del “presidente eletto” democratico, omettendo di informare su un percorso a tappe (inclusi i ricorsi e le obiezioni degli oltre 150 parlamentari repubblicani che contestano l’esito elettorale) che potrà dirsi concluso solo con la cerimonia di insediamento del prossimo 20 gennaio.