Reinventarsi è diventato un obbligo per tutti quei liberi professionisti, imprenditori, artisti o lavoratori nel campo della ristorazione che sono stati licenziati, lasciati a casa o costretti a chiudere la propria attività per colpa della pandemia. Molti si sono reinventati nel campo del food delivery, e pare che solo in Italia si sia arrivati a contare circa 30.000 rider che portano a casa la spesa o la cena in bicicletta o in scooter. Si tratta di lavoratori precari che vivono di consegne a domicilio, alle prese ogni giorno con problemi di sicurezza e diritti violati.
Quando parliamo di Uber, Foodora, Deliveroo, ecc. ci riferiamo a un fenomeno particolare, quello della gig economy. La gig economy (dal termine inglese “gig”, “lavoretto”) è un modello dove le prestazioni lavorative stabili sono azzerate e gli impiegati e i dipendenti a tempo indeterminato praticamente non esistono (molti sono studenti e immigrati). La dimensione sociale del lavoro è azzerata con rilevanti ricadute in termini di esclusione sociale e tutele di welfare.
Per far accettare questo nuovo modello di precariato agli occhi dell’opinione pubblica, i media hanno iniziato a scrivere storie edulcorate straripanti di sentimentalismo, volte a sbandierare i punti di forza della gig economy in modo da farla penetrare gradualmente e renderla accettabile. Si tratta semplicemente di un vecchio trucchetto nel campo della propaganda e dell’ingegneria sociale: il ricorso alla tecnica della gradualità condita con il metodo dell’empatia.
Un esempio lampante è accaduto con un articolo della versione cartacea del Messaggero pubblicata il 15 gennaio scorso che, ripreso a cascata da altri quotidiani, in virtù dell’apertura dei cancelli dell’informazione (un quotidiano autorevole batte una notizia e tutti gli altri a cascata, appunto, la copiano e la divulgano senza verificarla), tra cui La Stampa con un articolo firmato da Antonella Boralevi, ha raccontato la storia di un certo Emiliano Zappalà, un trentacinquenne che si sarebbe reinventato come rider quando la pandemia lo ha costretto a chiudere il suo studio da commercialista.
Secondo i due articoli, Zappalà pedalerebbe con la sua bicicletta per 100 km al giorno consegnando per Deliveroo e guadagnerebbe dai 2000 ai 4000 euro netti. L’intervista del Messaggero ripresa dalla Stampa ha fatto discutere perché quello del rider viene descritto come un lavoro molto redditizio e soddisfacente (il titolo dell’articolo de La Stampa allude al protagonista della storia come rider “felice”) senza nessun riferimento alle proteste dei fattorini che da anni denunciano salari da fame, condizioni di lavoro precari e degradanti, totale assenza di tutele, pericoli costanti per la sicurezza.
La notizia non solo è falsa, ma è stata smentita dallo stesso protagonista della storia, come spiegato da Marcello Caponigri in un articolo pubblicato su La Fionda.
Innanzitutto, il diretto interessato si chiama Emanuele e non Emiliano Zappalà, ha 37 anni e non 35 e non è un commercialista,ma, spiega Caponigri,
«ha studiato per diventarlo, ha svolto un tirocinio, ma non ha mai esercitato la professione, quindi non ha mai aperto il suo studio e non ha mai dovuto chiuderlo a causa del covid. Inoltre lavora come rider da circa un anno e mezzo, non dal lockdown e usa la moto e non bicicletta. L’intervista, firmata da Francesco Bisozzi, risale ad ottobre, e Zappalà è stato ricontattato pochi giorni fa, prima che uscisse, per confermare le informazioni. La conferma non sembra essere servita, dato il titolo “Ho dovuto chiudere il mio nuovo studio, ora porto le pizze”».
Soprattutto, i guadagni, che secondo i due articoli, sarebbero netti, sono invece lordi:
«Zappalà lavora molte ore ogni giorno e ha avuto mesi molto positivi, ma mediamente il suo guadagno netto è di circa 1600 euro al mese, togliendo anche le spese per la benzina. Una cifra dignitosa che gli consente di affrontare i suoi progetti di vita, ma non uno stipendio da manager, come descritto dagli articoli».
Insomma, l’ennesima bufala dei professionisti dell’informazione che, questa volta, non solo hanno travisato i fatti ma hanno anche voluto diffondere un’idea falsata del lavoro precario del rider.